È tornata da dove?
“Da tutto quello che è stata la mia vita: i luoghi frequentati, le lingue conosciute, le persone che hanno dato un senso a qualcosa che forse un senso non ha. La Sicilia produce disincanto e amarezza, con la stessa frequenza con cui produce limoni e granite”. Dove è nata esattamente? ” Sono siciliana, ma nata in Svizzera e cresciuta a Roma. Liceo francese, laurea in legge a diciannove anni. Volevo occuparmi di diritto islamico. Ma non erano i tempi. Alla fine mi laureai con Pietro D’Avack. Ero particolarmente dotata per le lingue. Feci la scuola interpreti a Roma e a Ginevra. Finii col padroneggiare il francese, l’inglese, il tedesco, lo spagnolo e infine l’arabo”.
L’arabo imparato dove?
“Presso i ” padri bianchi” del pontificio istituto di studi arabi a Roma. Poi un dottorato alla École des hautes études e all’università di studi metafisici a Damasco. C’erano migliaia di donne venute per studiare islamistica. Mi congedai con una tesi sulle sepolture dei santi sul Monte Cassius, che è proprio sopra Damasco”.
Tra le cose notevoli, prima dell’arabo, c’è stato il lavoro di traduzione del “Signore degli Anelli”, come è nata questa impresa?
“Frequentavo l’ultimo anno del liceo, ma già allora volevo essere economicamente indipendente per viaggiare. Avevo già tradotto Ferlinghetti e qualche altra cosa della Beat generation. Chiesi a Ubaldini, editore dell’Astrolabio, se aveva qualche traduzione da farmi fare. Con mia sorpresa mi diede in mano i primi due libri del Signore degli Anelli”.
Come fu l’impatto con il romanzo di Tolkien?
“Non capivo cosa esattamente fosse quell’opera. Tolkien mi spedì una specie di “manuale di istruzione” su come tradurre il romanzo. Quando infine l’opera uscì, in una veste parziale, fu un insuccesso clamoroso”.
Perché secondo lei?
“Non erano i tempi giusti. Il romanzo uscì nel 1967 e pochi allora intuirono la sua forza dirompente. E poi cosa rappresentava quell’affresco medievaleggiante? Ad appesantire la delusione si aggiunsero tempo dopo alcune scorrettezze intellettuali”. Da parte di chi? ” Rusconi, su suggerimento di Elémire Zolla, comprò i diritti dell’opera. La cura fu affidata a Quirino Principe che mi attribuì dei tradimenti assolutamente infondati. Ci stetti talmente male da decidere di intraprendere un lungo viaggio nel mondo arabo. Eravamo alla metà degli anni Settanta. Prima di allora, sul finire degli anni Sessanta, avevo soggiornato per più di un anno negli Stati Uniti”.
In America cosa faceva?
“Collaborai con alcune riviste di moda e di arte e in seguito scrissi un libro su quel mondo: InDigest, il meglio dell’America per un mondo migliore”.
Chi frequentava?
“Soprattutto il ristretto popolo dell’arte. Erano anni artisticamente intensi per New York. Riuscii a essere invitata al MoMA e tenni una conferenza sulla videoarte. Feci il mio discorsetto in latino. Ad assistere c’era tra gli altri Hans Magnus Enzensberger, che restò colpito da quella stravaganza. Diventammo amici”.
È stato il meno tedesco degli scrittori della sua generazione.
“Per me è stato un uomo fantastico e uno scrittore potente, acuminato, versatile. Effettivamente, la sua testa rinascimentale aveva poco di tedesco. Sia Titanic che Mausoleum, che io ho tradotto, sono dei piccoli capolavori, che rompono i confini di una nazione”.
Del mondo dell’arte chi vedeva?
“A parte Leo Castelli e Ileana Sonnabend, le persone con cui ho stretto un vero rapporto sono state Robert Rauschenberg e Bob Wilson. Mi pare che conobbi Rauschenberg attraverso Martha Jackson, una collezionista e gallerista, che avevo casualmente incrociato in un parcheggio di New York”.
Era già famoso?
“Sì, lo era. Ricordo che molti divi hollywoodiani si contendevano le sue opere. La Nasa lo invitò ad assistere a un lancio spaziale. E da quella esperienza lui realizzò una serie di litografie che fu definita l’equivalente tecnologico del ciclo di Rubens su Maria de’ Medici. Mi capitò di andare a trovarlo sulla sua isola in Florida, dove si era trasferito proprio in quegli anni. Aveva un grande afflato con tutto quello che era natura. Forse gli derivava dalle sue origini in parte indiane”.
Era figlio di una principessa.
“Una principessa cherokee e un padre tedesco. Rauschenberg era molto legato alle sue origini materne. Mi colpì vederlo sull’isola di Catalina raccogliere quello che il mare restituiva alla spiaggia: materiali estranei all’arte con cui realizzava i suoi collage. Sapeva dare nuova vita alle cose più umili e comuni. Penso che la sua influenza sia stata pari a quella di Duchamp, del quale si sentiva un’emanazione, e di Pollock”.
Aveva avuto anche problemi di alcolismo.
“Dipendeva dalla bottiglia, come molti della sua generazione. I suoi ultimi anni non furono i migliori. Lo ricordo in carrozzella, con il braccio offeso. Aveva avuto un ictus serio. Ma dopo alcuni mesi di depressione riuscì nuovamente a lavorare”.
Ho visto che nella stanza accanto c’è una sua opera.
“È la parte di un mosaico, composto da quaranta tessere che lui volle regalare ai suoi amici. Sono felice di essere stata compresa tra questi”.
Quando ha deciso di lasciare gli Stati Uniti?
“Sono sempre stata inquieta. Dopo più di un anno che ero lì, lessi su una rivista che cercavano un insegnante di giornalismo a Ulan Bator”.
In Mongolia?
“Sì, capisco che è insensato, ma l’idea di andare in un posto così remoto mi affascinava. Entrai in contatto con alcuni del posto e decisi la partenza: gennaio 1971. Quando lo annunciai a Enzensberger, lui mi chiese se fossi pazza: la Mongolia? Mi informò che la temperatura in quel momento era di trentasette gradi sotto zero. Pensai seriamente che non avrei retto a quel freddo. E dunque feci marcia indietro. Poi accadde una cosa strana”.
Non avevo dubbi.
“All’ennesimo convegno sul destino dell’arte, incontrai un regista catalano: José Montes-Baquer. Mi disse che in Europa non c’era nessuno capace di realizzare videoarte, ma solo gente che giocherellava con la tecnologia. Mi chiese se conoscevo qualche artista disposto a realizzare un “corto”. A me venne in mente Salvador Dalí”.
Perché lui?
“Perché ero invitata a cena il giorno dopo. Pensai che fosse abbastanza imprevedibile da poter riuscire a convincerlo. Gli dissi che, se c’era una persona in grado di realizzare qualcosa di straordinario con la videoarte, era lui. Guardò sbalordito me e il regista: proprio a me doveva capitare una siciliana che non vuole posare nuda e mi porta pure un raccomandato!, commentò tra lo sprezzante e l’ironico. Gli dissi che lui era Dalí e che poteva permettersi tutto, anche subire l’affronto di una giovane siciliana. Ricordo che fece spengere tutte le luci. Vorrei riflettere, aggiunse. La cena finì con il mio racconto sulla Mongolia mancata. Il giorno seguente partii per l’Europa e non seppi più nulla”.
Non seppe se il video fu mai realizzato?
“Venni a sapere tempo dopo che il video era stato realizzato, che era bellissimo e dedicato a Raymond Roussel che, tra l’altro, morì suicida a Palermo”.
Un’allusione alla Sicilia e a lei?
“Non lo so. È indicativo che Dalí intitolasse il video Impressioni dell’alta Mongolia, dove racconta di una regina che sfama il suo popolo con gli allucinogeni. Credo che per lui tutto quello che fosse riconducibile al mondo onirico era liberamente componibile. Perfino sovrapporre la Mongolia alla Sicilia”.
È una bella storia.
“Non finisce qui. Avevo ormai completamente dimenticato quell’episodio, quando qualche anno fa venne a trovarmi un signore catalano. Mi disse che era un amico di José e che, prima di morire, José gli aveva chiesto di incontrare la donna che propiziando il film gli aveva cambiato la vita”.
Come ha conosciuto Dalí?
“Sinceramente non lo ricordo. Forse attraverso Gala, la moglie. Che è pure venuta ospite qui a Villa Valguarnera. Si era messa in testa che la Sicilia fosse il luogo perfetto per ambientare il surrealismo e voleva realizzare un museo surrealista a Palazzo Palagonia. Davvero una visione eccentrica”.
A proposito di eccentricità la sua famiglia ne ha avuta parecchia in sorte.
“Il più eccentrico forse fu lo zio di mio padre: Enrico, duca di Salaparuta, padre di Topazia Alliata che sposò Fosco Maraini, teosofo amico di Rudolf Steiner, allievo di Krishnamurti e pioniere del vegetarismo. Quanto a mio padre, più che eccentrico fu dotato di una innata versatilità. Con una passione speciale per il cinema. Realizzò documentari subacquei e mise in piedi una casa di produzione cinematografica: la Panaria con la quale realizzò un film di Jean Renoir, La carrozza d’oro, che avrebbe dovuto girare Visconti”.
Perché il film passò da Visconti a Renoir?
“Per la totale inaffidabilità di Visconti. Si dimostrò un egocentrico privo di scrupoli. Alla fine, dopo avergli fatto perdere una quantità enorme di denaro, mio padre lo cacciò e affidò la regia a Renoir. Il film uscì nel 1952. Fu un bagno di sangue ma anche un capolavoro. A Londra, dove ci fu la prima, Charlie Chaplin abbracciò Renoir e si complimentò per il coraggio di mio padre”. Visconti, anni dopo, avrebbe girato ” Il gattopardo”.
Suo padre commentò mai la cosa?
“Ho due ricordi. Il primo è che papà non aveva amato il romanzo di Tomasi di Lampedusa. Riteneva che fornisse un’immagine immobile della Sicilia, un’immagine abusata e comunque diversa, profondamente diversa, dal suo carattere. Il secondo è che, quando Visconti venne per dei sopralluoghi, tutta Palermo entrò in agitazione. Salvo mia nonna che gli vietò espressamente di mettere piede nelle nostre dimore, memore della sua sgradevolezza. La famiglia non aveva dimenticato la sua arroganza”.
Per molti anni lei è stata lontana dalla famiglia, diciamo dalle sue radici.
“È vero, ho trascorso molto tempo fuori dalla Sicilia e dall’Italia. In America come le raccontavo e per circa tre anni a Monaco di Baviera. Poi in Medio Oriente e in Asia, dove ho seguito le mie fascinazioni dell’Islam. Ho vissuto in Libano, in Siria e ho amato quella cultura che è anche un po’ la nostra. Sono stata a lungo in India e, in varie tappe, per circa tre anni tra la Malesia e il Borneo. Ho fatto cose irripetibili. Ho allevato cammelli da corsa e raccontato la vita negli harem fuori dagli stereotipi occidentali”.
Cosa intende per fuori dagli stereotipi?
“È un luogo comune che la donna araba sia una figura sottomessa. Pensare all’harem come a un luogo di promiscuità o di bordello privato è un’invenzione tutta europea. Una lettura tra l’esotico e il maschilista che Pierre Loti accreditò per primo. Ho cercato di raccontare il mondo diverso che avevo conosciuto e nel quale la donna araba ha una funzione fondamentale. Mi piacerebbe scrivere un nuovo libro che parli di questo assurdo conflitto in corso attraverso gli occhi delle donne. Ma chissà se ne avrò il tempo”.
Perché?
“Molto di quello che ho scritto è frutto del caso o delle insistenze di buoni amici, come fu Livio Garzanti e lo stesso Enzensberger. Ma alla fine sono tornata qui in Sicilia per occuparmi della mia terra. Le parole sono importanti e vanno scelte bene. Ma ancora più importante è l’impegno per rompere questo assedio di orrori che stringe la Sicilia e la mia Bagheria. A volte mi piace pensare che sarebbe bello creare una nuova “compagnia dell’anello”, con la quale Tolkien immaginò di combattere i soprusi del potere”.